Robert Service, Lenin. L'uomo, il leader, il mito (Mondadori, 2001)


 

 

La scuola borghese della falsificazione

IL LORO LENIN E IL NOSTRO1

 

Robert Service, Lenin. L’uomo, il leader, il mito, Mondadori, Milano 2001, pp. XVI-504, L. 38.000

 

La storia scritta non può mai essere neutrale, e le biografie sono solitamente frutto della simpatia o dell’antipatia che il biografo prova nei confronti del soggetto della sua opera. Il Lenin di Robert Service appartiene al secondo caso, e la primissima impressione generale che se ne ricava dopo averlo letto è che l’autore odia politicamente il fondatore del bolscevismo russo. Service lo mette in chiaro sin dall’inizio. Secondo lui, “Lenin era una bomba ad orologeria” (p. 9), “la sua passione per la distruzione era maggiore del suo amore per il proletariato” (p. 9) e aveva eliminato tutte “le remore di carattere etico” (p. 12). Questi apprezzamenti malevoli vengono reiterati ad nauseam dall’inizio alla fine, e tutto il suo libro è permeato da questo moralismo unilaterale borghese e da un sentimento anticomunista profondamente radicato.

Nonostante la sua ricchezza di informazioni sulla vita privata di Lenin, compresi i dettagliatissimi riferimenti alla sua vita familiare e al suo stato di salute, il libro non concede al lettore alcuna possibilità di cogliere correttamente il significato dell’azione politica di Lenin nella misura in cui la maggior parte degli aspetti “negativi” della sua attività di uomo politico vengono estrapolati dal loro contesto storico e trattati come degli errori o crimini in assoluto, senza tener conto del quadro generale in cui essi si produssero né degli avvenimenti concreti che li provocarono.

Ad esempio, Service menziona a malapena il tentativo di colpo di stato antibolscevico del 6 luglio 1918 da parte dei Socialisti-Rivoluzionari (S-R) di sinistra, che cercarono di prendere il potere a Mosca, e non stabilisce alcun legame di sorta tra l’attentato alla vita di Lenin del 30 agosto 1918 e lo scatenamento del “terrore di massa”. In realtà, la donna che cercò di assassinare Lenin era Fanja (Dora) Kaplan, il cui nome e la cui affiliazione politica (la Kaplan militava nel partito S-R) vengono passati sotto silenzio nel libro di Service. Inoltre Service non dice che il via libera per il colpo di stato del 6 luglio fu dato dall’uccisione, ad opera di Jakov Blumkin, dell’ambasciatore tedesco a Mosca, il conte von Mirbach, uccisione che segnò il punto più alto della campagna dei S-R contro la politica estera bolscevica portata avanti con la firma del trattato di Brest-Litovsk. Tra parentesi, fu proprio lo scontro tra i bolscevichi e i S-R a segnare l’avvio della guerra civile – cosa che Service trascura completamente di mettere in evidenza. Inoltre egli occulta totalmente anche il carattere politico effettivo della guerra civile in quanto intervento militare ad ampio raggio mediante il quale la reazione russa e la borghesia mondiale cercarono di restaurare il capitalismo (e lo zarismo) in Russia.

Ma questo è soltanto un esempio del metodo di Service, che consiste nel trattare dei rilevanti fatti storici come avvenimenti separati, non connessi tra loro, e nel guardare a questi stessi eventi in maniera impressionistica, cioè senza considerare le loro motivazioni e il loro contenuto politico. E questo stesso approccio semplicistico viene applicato anche al livello più “astratto” della teoria politica. Del resto, il precedente lavoro in tre volumi di Robert Service su Lenin (Lenin. A Political Life, Macmillan, Basingstoke 1985, 1991 e 1995) aveva già mostrato le sue pessime relazioni con la sfera della politica, come è stato giustamente osservato da James D. White, autore di un altro libro recente sullo stesso argomento (Lenin. The Practice and Theory of Revolution, Palgrave, Basingstoke 2001, p. 199).

Così Service dimostra in modo lampante la sua incapacità di comprendere delle “bazzecole” come l’originale concezione leninista del partito rivoluzionario e le vere cause della scissione del 1903 tra bolscevichi e menscevichi, da lui erroneamente (e tendenziosamente) presentata come uno scontro tra Julij Martov, che “voleva un partito i cui membri avessero lo spazio per esprimersi in modo autonomo rispetto ai dirigenti centrali” (p. 144), e lo stesso Lenin, secondo il quale “si trattava di ottenere sempre l’egemonia, di ottenerne sempre di più” (p. 144 – ci permettiamo qui di rilevare uno dei tanti errori di traduzione, visto che nell’originale inglese non si parla affatto di “egemonia” e quest’ultimo passaggio suona invece come segue: “secondo Lenin, c’era bisogno di direzione, di direzione e ancora di direzione”); così Service trascura le origini teoriche e l’enorme impatto pratico delle leniniane Tesi d’aprile del 1917 (pp. 244, 250); così egli manca di affrontare il tentativo di Lenin di costruire un blocco politico con Trotsky alla vigilia del XII Congresso del Partito Bolscevico dell’aprile 1923 allo scopo di sconfiggere Stalin e di fermare la crescente degenerazione burocratica degli apparati dello stato e del partito. L’elenco delle incomprensioni, degli errori e delle omissioni di Service si potrebbe facilmente allungare.

Ma ciò che è peggio è che le debolezze di Service in fatto di metodologia storico-politica sono aggravate dal suo tentativo cosciente non solo di offuscare, ma anche di cancellare del tutto dalla storia alcuni fatti scomodi. E i fatti a cui ci riferiamo sono “scomodi” per l’attuale crociata intrapresa dalla borghesia mondiale – con la sua pletora di politicanti, di giornalisti e di accademici – contro il comunismo autentico, cioè contro l’idea che l’umanità possa liberarsi da tutte le forme di sfruttamento e di oppressione attraverso una rivoluzione socialista che tolga di mezzo ogni sorta di sfruttatori e di oppressori.

Così Service osserva di passata che Lenin “aveva approvato l’uso della violenza contro tutti coloro che avevano opposto resistenza politica ai Rossi durante l’occupazione dell’Azerbaigian, dell’Armenia e della Georgia” (p. 404), ma tralascia completamente il fatto che la ragione di fondo della soppressione del governo menscevico in Georgia ad opera dell’Armata Rossa nel febbraio 1921 fu che i menscevichi georgiani – i quali opprimevano sciovinisticamente varie minoranze nazionali abitanti in quel territorio, inclusi gli Azerbaigiani e gli Armeni – avevano messo in atto una virulenta campagna di arresti contro i bolscevichi locali nonostante la legalizzazione del partito comunista georgiano nel maggio 1920; così, parlando della ribellione di Kronštadt del febbraio 1921, Service non fa parola né di “quisquilie” come il programma politico degli insorti, né dei tentativi dei Bianchi e di alcune potenze straniere di approfittare del sollevamento per favorire i loro piani antibolscevichi, come è stato dimostrato da Paul Avrich, il cui bel libro del 1970 su Kronštadt (ed. it.: P. Avrich, Kronstadt 1921, Mondadori, Milano 1971) sembra essergli del tutto sconosciuto.

 

Firenze, 22 aprile 2002                                                                                              

Paolo Casciola



1 La presente recensione è stata originariamente pubblicata sotto questo stesso titolo in L’Internazionale, a. V, n. 34, [Livorno,] maggio-giugno 2002, p. 6 [N.d.r.].