Pierino Marazzani, Il suicidio nella storia della Chiesa. Come il clero pone fine alla propria vita grama e ipocrita


 

 

Pierino Marazzani, Il suicidio nella storia della Chiesa.

Come il clero pone termine alla propria vita grama e ipocrita

[Prefazione di Valerio Pocar],

Edizioni La Fiaccola, Ragusa 2013, pp. 68, € 6,00

                                                                                                                                          

Il suicidio è un gesto estremo che va al di là del principio di autoconservazione proprio di tutte le entità biologiche, ed è quasi sempre manifestazione di un’acuta sofferenza o di un profondo smarrimento esistenziale che non possono non sollecitare l’umana comprensione, la pietas o, quanto meno, il grande rispetto che dovrebbe ispirare il rapporto con l’umanità dolente. La Chiesa adotta invece un giudizio impietosamente ostile, di radicale condanna di coloro che lo mettono in atto. Il suicidio costituirebbe infatti un esecrabile peccato contro la divinità. Come recita il Catechismo ufficiale: «Ciascuno è responsabile della propria vita davanti a Dio che gliel’ha donata. Egli ne rimane il sovrano Padrone. Noi siamo tenuti a riceverla con riconoscenza e a preservarla per il suo onore e per la salvezza delle nostre anime. Siamo amministratori, non proprietari della vita che Dio ci ha affidato. Non ne disponiamo.»

Il merito di questo volumetto è anzitutto quello di evidenziare, sulla base dei fatti, che la scelta dolorosa di anticipare la fine della propria esistenza può riguardare anche i credenti, sacerdoti compresi. D’altro canto, nel momento stesso in cui condanna senza appello il suicidio, la Chiesa si sente in dovere di onorare i propri «eroi» che ‒ come Santo Stefano, Maria Goretti o Massimiliano Kolbe ‒ preferirono il martirio (che è un atto di autodeterminazione della propria vita) piuttosto che abiurare o contraddire le scelte valoriali che ispiravano la loro azione in situazioni nelle quali i principi religiosi inducevano o imponevano l’accettazione consapevole della morte.

L’autore sottolinea che l’adesione ad un credo religioso non costituisce affatto un antidoto rispetto alle tentazioni autodistruttive che vengono recisamente condannate dalla dottrina. I numerosi casi di suicidio che egli puntualmente documenta ‒ suicidi di vescovi, sacerdoti, seminaristi, preti pedofili e loro vittime, suore, ecc. ‒ rappresentano un’evidente prova della falsità e dell’ipocrisia della religione cattolica romana: se i rappresentanti di quest’ultima fossero coerenti con le loro prediche a favore della vita umana, mai e poi mai dovrebbero compiere un’azione tanto estrema (e spesso improntata al fanatismo), che suscita seri dubbi sulla loro presunta vocazione e sull’amore che dicono di provare per il genere umano.

Nel corso dei secoli il papato ha negato ai suicidi i funerali religiosi e la sepoltura in terreno consacrato. Fino agli anni Sessanta del secolo scorso il suicidio era considerato il sacrilegio dei sacrilegi in quanto implicava un dubbio assoluto su alcuni dogmi-cardine del cattolicesimo. Ma il Concilio Vaticano II (1962-65) operò un inaspettato ribaltamento a seguito del quale, rimangiandosi secolari scomuniche, la Chiesa di oggi ammette, salvo rarissimi casi, la preghiera per le persone che hanno attentato alla propria vita, senza però smettere di condannare il gesto suicida.

Questa mancanza di carità e di comprensione nei confronti dei suicidi e, in generale, la negazione religiosa del diritto di porre fine alla propria vita debbono indubbiamente essere ancora letti come l’estremo, pervicace tentativo della Chiesa di dominare le menti e la volontà degli esseri umani, espropriandoli della sovranità sul proprio corpo e negando loro il diritto di scegliere come meglio disporre della propria esistenza.   

 

 

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