Martina Guerrini, Donne contro. Ribelli, sovversive, antifasciste nel Casellario Politico Centrale (Zero in Condotta, 2013)


 

 

Martina Guerrini, Donne contro.

Ribelli, sovversive, antifasciste nel Casellario Politico Centrale

[Prefazione di Marco Rossi: «Un altro genere di antifascismo»],

Zero in Condotta, Milano 2013, pp. 82, € 7,00

                                                                                                                                          

Dalle prime sovversive che contrastarono lo squadrismo alle operaie ribelli al regime, passando dalle militanti della cospirazione clandestina fino alle partigiane che seppero impugnare anche le armi, il fascismo dovette fare i conti con donne che non accettarono di sottomettersi al ruolo sociale e all’ideologia sessista che le voleva soltanto prolifiche e ubbidienti «giovani italiane».

A rovesciare tale subalternità, sostenuta dallo stesso Benito Mussolini, fu una capacità di autodeterminazione che un ventennio di dittatura non riuscì a vincere. Dalle tante piccole storie di opposizione nascoste tra le «anonime» schedate dalla polizia fascista nel Casellario Politico Centrale vengono infatti alla luce biografie di donne pronte a contrapporsi alla morale e alla cultura dominanti. Tale irrisolta contraddizione di genere emergerà poi anche all’interno delle formazioni partigiane e, successivamente, nella storiografia resistenziale, che opererà una rimozione nei confronti delle combattenti e delle prospettive di radicale liberazione che esse perseguivano.

Complessivamente, le donne «biografate» nel Casellario Politico Centrale sono circa cinquemila. Tra queste, l’autrice ha selezionato un interessante «campionario» di donne nate o comunque vissute per un determinato periodo in Veneto: l’antifascista Ida Baldini, la comunista Maria De Fanti (che aderì poi al movimento trotskista), la mendicante Matilde De Poli e la socialista Elvira Pilon, tutte di Venezia; la comunista Aurelia Benco di Trieste; la «comunista-anarchica» Irma Zanella di Adria; le antifasciste Maria Ottaviano di Palmi, Maria Selvatici di Faenza e Jemina Vinay di Vittoria; le sorelle Anna Maria, Luisa e Silveria Zecca di Ponza, che manifestavano «sentimenti ostili al Regime e alle Istituzioni Fasciste, con contegno sprezzante verso le Autorità, dimostrando speciale simpatia per i confinati assegnati alla colonia di Ponza».

Queste avversarie del fascismo, insieme a tutte le donne che nella loro quotidianità hanno anche solo sfidato il regime bestemmiando contro il Duce in un’osteria di paese, mostrano una continuità carsica, con momenti certamente più alti e altri vissuti a denti stretti, di azioni conosciute e tramandate nella memoria degli/delle oppressi/e. L’istintiva opposizione al sopruso e alla prepotenza squadrista, il gusto della simbolica non-sottomissione a salvaguardia della propria integrità morale, refrattaria all’autorità e all’autoritarismo, costituiranno legami forti e tenaci, capaci di spiegare meglio l’esigenza di pretendere pari accesso all’atto finale insurrezionale, piuttosto che non una formale educazione militaresca alla «difesa della patria».

Scrive infatti una partigiana: «Non sono venuta qui a cercare un innamorato: io sono qui per combattere e rimango solo se mi date un’arma e mi mettete alla guardia e alle azioni», mentre un’altra racconta: «Curavo i miei compagni ma non li servivo, se uno voleva un panino se lo faceva. Io non ero andata da loro per lavare i piatti.» È veramente difficile immaginare che, a queste donne, il regime fascista avesse insegnato a pensarla così.

 

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