Dino Erba, Nascita e morte di un partito rivoluzionario. Il Partito Comunista Internazionalista 1943-1952


 

 

Dino Erba, Nascita e morte di un partito rivoluzionario.

Il Partito Comunista Internazionalista 1943-1952,

All’Insegna del Gatto Rosso, Milano 2012, pp. 296, prezzo non indicato

                                                                                                                                          

 

Nella prima metà del Novecento entrò nel vivo il passaggio dalla fase di sottomissione formale del lavoro al capitale alla fase di sottomissione effettiva ‒ una fase, quest’ultima, in cui il capitale tende a pervadere e a dominare tutti i rapporti economici e sociali. Molte aree del pianeta attraversavano allora uno stadio di transizione, compresa l’Italia, dove il fascismo aveva avviato ma non portato a termine la «modernizzazione», alla quale sfuggivano i rapporti di produzione legati alla piccola proprietà contadina e alla mezzadria, nonché all’artigianato.

Quando, nel luglio 1943, gli Alleati anglo-americani iniziarono la lenta occupazione militare del Paese ‒ che richiese quasi due anni per essere portata a termine ‒, l’Italia si presentò ai loro occhi come un possibile «laboratorio» politico per sperimentare soluzioni da poter poi applicare anche in altre nazioni. In tale cornice si inserì l’azione del Partito Comunista Internazionalista (PCInt), creato nell’Italia settentrionale verso la fine del 1942 per iniziativa di alcuni militanti della Sinistra Comunista bordighiana che si richiamavano all’indirizzo originario del Partito Comunista d’Italia.

Durante la Resistenza il PCInt entrò in aperto contrasto con la politica collaborazionista di classe dell’unità nazionale patrocinata dal partito «comunista» di Palmiro Togliatti. E dopo la Liberazione al PCInt si unirono altre formazioni di sinistra, che si erano costituite nell’Italia centro-meridionale. In breve tempo il PCInt dispose di proprie sezioni in molte delle principali città italiane, coprendo buona parte del territorio nazionale e diventando così, secondo l’autore del volume, «un piccolo partito comunista “di massa”». I comunisti internazionalisti furono presenti in molte grandi fabbriche, dove animarono una tendenza sindacale in opposizione alla linea della CGIL di Giuseppe Di Vittorio, che faceva ricadere i costi della ricostruzione (capitalistica) nazionale sulle spalle degli operai. Nelle campagne, soprattutto in Calabria e in Puglia, i militanti del PCInt parteciparono ai movimenti dei braccianti e dei contadini. In tutte le lotte, essi furono in prima fila contro la reazione padronale, contro la violenza statale e contro i compromessi «nazional-comunisti».

La storia del PCInt rappresenta un filo conduttore per ripercorrere le varie fasi della feroce normalizzazione borghese del secondo dopoguerra in Italia, dove il sovversivismo dei proletari, che dopo la fine del conflitto imperialista mondiale aspiravano ad una vita migliore, venne inibito dalla politica nazional-popolare del PCI di Togliatti e successivamente represso dallo Stato, disgregato dal grande flusso migratorio e infine assorbito nel boom economico indotto dal Piano Marshall. Tali passaggi furono però tutt’altro che lineari e pacifici. Essi dettero luogo a momenti di opposizione e di lotta che talora trovarono un punto di riferimento nel PCInt.

L’ultima parte del volume è consacrata alla spaccatura del PCInt in due tronconi, avvenuta nel maggio-giugno 1952 ma preceduta, a partire dall’ottobre 1951, da quelli che l’autore definisce «provvedimenti organizzativi da bassa corte». Entrambi i raggruppamenti continuarono a chiamarsi «Partito Comunista Internazionalista»: sia quello diretto da Bruno Maffi (e sostenuto da Amadeo Bordiga), che pubblicò il giornale Il Programma Comunista; sia quella guidata da Onorato Damen, che mantenne la vecchia testata Battaglia Comunista. Nonostante il fatto che i due PCInt siano sopravvissuti fino ai nostri giorni ‒ ma la «galassia bordighista» si è nel frattempo arricchita di parecchi altri piccoli e piccolissimi pianeti, e non soltanto in Italia… ‒, l’autore sottolinea come la scissione del 1952 abbia segnato la conclusione di quell’esperienza politica durata poco più di un decennio, avanzando in tal modo un’ipotesi di discontinuità, non soltanto organizzativa, tra il PCInt del 1943-52 e le formazioni che a quella stessa esperienza si sono richiamate negli anni successivi.

 

 

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