Brigitte Studer, The Transnational World of the Kominternians (Palgrave Macmillan, 2015)




Brigitte Studer,

The Transnational World of the Kominternians,

Palgrave Macmillan, Basingstoke 2015, pp. IX-227, $ 90,00

 

 

I «kominterniani» che costituiscono l’oggetto del libro della storica svizzera Brigitte Studer sono i comunisti stranieri che lavorarono per la Terza Internazionale Comunista (o Komintern, secondo l’abbreviazione russa del suo nome) e per le sue organizzazioni ausiliarie (l’Internazionale Sindacale Rossa, l’Internazionale Comunista della Gioventù, ecc.), principalmente a Mosca, nel periodo tra le due guerre mondiali. La Studer ha studiato la specificità delle loro esperienze in quello che ella definisce come un «mondo transnazionale». Fondato a Mosca nel marzo 1919 come partito internazionale della rivoluzione, e sciolto da Stalin nel maggio 1943 in omaggio alla sua alleanza militare con l’imperialismo anglo-americano, il Komintern visse inizialmente in un clima di ottimismo perché, nonostante le difficili condizioni della Russia sovietica negli anni della guerra civile, un’estensione della rivoluzione proletaria ad altri paesi europei sembrava allora possibile. I dirigenti e i quadri comunisti stranieri che si recarono a Mosca in quel periodo venivano considerati come dei rappresentanti d’élite della rivoluzione che stava maturando all’estero. Tuttavia essi formavano una sorta di microcosmo privilegiato e chiuso rispetto alla realtà sovietica e, soprattutto, privo di contatti effettivi con la vita della classe operaia e degli altri ceti popolari. Questo libro racconta le loro esperienze politiche negli anni Venti-Trenta, ma anche l’incontro tra il loro immaginario rivoluzionario e la vita sovietica d’ogni giorno.

La Studer sostiene che le fila composite e cosmopolite dei «kominterniani» erano costituite da un insieme di militanti uniti non soltanto da una stessa fede politica, ma anche da vincoli personali/sociali di tipo inedito che, in un certo senso, prefiguravano il mondo nuovo, cioè il nuovo assetto planetario post-nazionale ‒ e dunque «transnazionale», appunto ‒ che l’estensione della rivoluzione proletaria ad altri paesi avrebbe potuto e dovuto creare. Ma i fallimenti della rivoluzione in paesi come la Germania (1918-19 e 1923), l’Ungheria (1919) e l’Italia (1920) determinarono dei cambiamenti fondamentali, e rappresentarono uno dei fattori cruciali che poi, nel corso degli anni Venti, spianarono la strada alla controrivoluzione staliniana. La vittoria in seno al Partito bolscevico della frazione «di centro» capeggiata da Iosif Stalin ‒ dapprima in alleanza con Grigorij Zinov’ev e Lev Kamenev (la celebre trojka) e poi con Nikolaj Bucharin, fino al consolidamento della sua dittatura personale alla fine degli anni Venti ‒ portò all’emarginazione delle tendenze rivoluzionarie guidate da dirigenti della statura di Lev Trotsky. Il prevalere della dottrina staliniana del «socialismo in un paese solo» determinò anche un ridimensionamento del ruolo del Komintern e un crescente atteggiamento di sospetto nei confronti dei comunisti stranieri.

Una parte dei «kominterniani» fu profondamente delusa da questi sviluppi ‒ alle istanze egalitarie delle origini si sostituì progressivamente un aumento della gerarchizzazione sociale, la democrazia di partito venne dapprima ridimensionata e poi annullata attraverso uno sviluppo abnorme della centralizzazione e della burocratizzazione, le istanze rivoluzionarie internazionaliste passarono in secondo piano a vantaggio del nazional-comunismo grande-russo, ecc. ‒ e sostenne le posizioni delle varie opposizioni antistaliniste, in primo luogo di quella diretta da Trotsky. Le donne comuniste straniere, alle quali la Studer consacra un intero capitolo, furono inoltre particolarmente sconcertate nel 1936 di fronte all’adozione, nell’Unione Sovietica, di una legge che vietava l’aborto, laddove sedici anni prima la Russia sovietica era stata il primo Stato a legalizzare l’interruzione volontaria della gravidanza. Frequentando le scuole del Komintern e lavorando in istituzioni soggette alla supervisione dello Stato sovietico, sempre più burocratizzato sotto il regime staliniano, la maggior parte dei «kominterniani» dovette sottomettersi alla disciplina di un partito che ormai aveva ben poco in comune con quello di Lenin. E dopo l’assassinio di Sergej Kirov (dicembre 1934), quando fu avviato il «grande terrore», il Komintern e il suo personale straniero furono tra le sue vittime principali.

The Transnational World of the Kominternians si apre con un’introduzione di carattere generale e metodologico alla quale fanno seguito sette capitoli, che sono versioni rielaborate di altrettanti studi precedentemente pubblicati dall’autrice tra il 2000 e il 2012. Il primo capitolo («Il modello bolscevico») tratteggia il contesto «istituzionale» entro cui i comunisti stranieri lavorarono, costituito appunto dal Komintern e dalle sue organizzazioni ausiliarie. Il secondo capitolo («La donna nuova»), al quale abbiamo accennato, prende in esame le possibilità di impegno politico aperte alle donne dalle organizzazioni comuniste «transnazionali», ma anche i limiti entro cui quell’impegno poté svilupparsi. Nel terzo capitolo («Nella Mosca di Stalin») viene ripercorsa l’esistenza quotidiana, nella capitale sovietica, dei «rivoluzionari di professione» stranieri, provenienti da molti paesi. Il quarto capitolo («Pratiche sovietiche di partito») analizza la creazione e il continuo affinamento dei meccanismi di un controllo sempre più stretto nei loro confronti. Nel quinto capitolo («Diventare un “vero bolscevico”») vengono ricostruite le tecniche di «lavoro su se stessi» adottate nelle scuole del Komintern ‒ specialmente a partire dalla metà degli anni Venti, con l’avvio della campagna staliniana di «bolscevizzazione» ‒ per la formazione dei quadri di partito. Il sesto capitolo («Il partito e la sfera privata») si sofferma sul posto occupato dalla vita privata dei «kominterniani», uomini e donne, nell’attività e nelle riunioni di partito in cui essi dovevano anche «parlare di sé», esprimere i loro punti di vista o manifestare le proprie doti e propensioni individuali. Il settimo capitolo («Da compagni a spie») mostra lo sviluppo dei meccanismi che, nella seconda metà degli anni Trenta, distrussero l’«enclave transnazionale» costituita dai comunisti stranieri nell’URSS, con l’avvio della grande mattanza staliniana proprio nel momento in cui, paradossalmente, il Komintern e le sue sezioni nazionali adottavano la politica dei Fronti Popolari, cioè la collaborazione di classe con l’ala «democratica e antifascista» delle varie borghesie nazionali.

Il punto culminante di quella politica riformista e controrivoluzionaria ‒ e dunque indubbiamente «ragionevole» dal punto di vista capitalistico ‒ fu proprio lo scioglimento del Komintern , che suggellò non soltanto la fine di una delle organizzazioni politiche internazionali più potenti della prima metà del XX secolo, ma anche la scomparsa definitiva del milieu politico transnazionale dei «kominterniani» e dell’esperienza collettiva che, nel bene e nel male, essi avevano incarnato. A quello scioglimento, e ai suoi lunghi strascichi nel «movimento comunista» (staliniano) mondiale, l’autrice consacra le stimolanti pagine dell’epilogo, scritte appositamente per questo volume.

La Studer, che è tra i pionieri dell’«approccio socio-culturale» alla storia del Komintern, ha potuto basarsi su un ampio lavoro di ricerca negli archivi dell’ex Unione Sovietica. Ma il fatto che il libro della Studer sia quasi interamente focalizzato sui «kominterniani» presenti a Mosca fa sì che alcuni aspetti rilevanti dell’attività del Komintern (e dunque anche del suo personale straniero) all’estero ‒ basti pensare all’intreccio di tali attività con quelle portate avanti dallo spionaggio sovietico ‒ vengano completamente ignorati. Nelle sue pagine, infine, si cercheranno invano i nomi di alcuni «kominterniani» di spicco, e dalla traiettoria politica e personale sicuramente emblematica, come il belga Victor Serge o l’italiano Palmiro Togliatti, per non parlare poi del catalano Andreu Nin, del giapponese Sen Katayama, dell’indiano Manabendra Nath Roy o di Pietro Tresso ‒ ma l’elenco completo degli assenti occuperebbe troppo spazio. E questo è certamente un altro dei limiti dell’opera, che merita comunque di essere letta e studiata con attenzione.

 

 

Il volume può essere richiesto direttamente alla casa editrice attraverso il seguente link:

http://www.palgrave.com/us/book/9781137510280