Benjamin Péret, Je ne mange pas de ce pain-là (Syllepse, 2010)


 

 

Benjamin Péret, Je ne mange pas de ce pain-là

[Presentazione di Gérard Roche],

Éditions Syllepse, Paris 2010, pp. 154, € 13,00

                                                                                                                                          

 

Nelle sue Entretiens del 1952, André Breton affermò: «Nei tre anni che precedono la nuova guerra [cioè il secondo conflitto mondiale (1939-45)], il surrealismo riafferma la sua volontà di non venire a patti con tutto il sistema di valori rappresentato dalla società borghese. Questa volontà si esprime con la massima intransigenza e audacia nella raccolta di Benjamin Péret: Je ne mange pas de ce pain-là» (A. Breton, Storia del surrealismo 1919-1945, Schwarz, Milano 1960, p. 174). All’epoca della sua prima uscita il libro di Péret, pubblicato a Parigi dalle Éditions Surréalistes nel 1936 ‒ e del quale esistono due diverse traduzioni italiane: Non ne mangio di quel pane [seguito da] Lettere dalla rivoluzione spagnola, Gratis, Firenze 1993 e Io non mangio di quel pane (a cura di Carmine Mangone), Quaderni Pietro Tresso, n.36, luglio-agosto 2002 ‒, divenne nel giro di breve tempo introvabile.

L’autore vi si abbandonava ad una vera e propria impresa demolitrice nei confronti della religione, dell’amor patrio, del nazionalismo e dei politicanti di allora. Questa sua nuova edizione francese, all’indomani del cinquantesimo anniversario della scomparsa del poeta (che fu anche un militante comunista rivoluzionario) permette di godere ancora una volta di questo piccolo libro esplosivo che, con rara violenza, dà libero sfogo alla collera, all’invettiva e all’insulto nei confronti delle varie facce dell’ordine costituito. La forza delle immagini che esso evoca, la brutalità dei giudizi espressi verso la classe capitalista, il clero, gli sbirri, l’esercito e gli uomini politici borghesi non ha alcun limite, alcun freno, tanto più che ‒ riunendo anche dei componimenti già precedentemente apparsi in varie riviste, a partire dal 1926 ‒ esso si colloca temporalmente nel contesto di un decennio segnato da profondi rivolgimenti sociali, da acuti conflitti di classe, da generosi tentativi rivoluzionari e dall’ascesa dei nazionalismi, dei fascismi e della controrivoluzione staliniana.

In Péret c’è una sorta di ipersensibilità iconoclasta verso tutto ciò che è menzogna e oscurantismo, verso ciò che ottunde gli spiriti e minaccia la libertà dell’uomo. Entro questa intelaiatura profondamente «libertaria» egli rifiutò ogni subordinazione politica dell’arte, come quella alla quale si assoggettarono figure di spicco del primo surrealismo come Paul Éluard e Louis Aragon. Secondo Péret, l’immaginazione artistica doveva rimanere libera e non essere costretta ad adattarsi alle circostanze e, come lui stesso affermò alcuni anni dopo, il compito precipuo della poesia autentica ‒ «vero respiro dell’uomo», che «mitraglia il plotone d’esecuzione che fucila l’operaio esalante un ultimo sospiro di rivoluzione sociale, ossia di libertà» (Il disonore dei poeti, Editoriale Contra, Milano 1966, pp. 63, 64) ‒ era quello di battersi affinché «l’uomo attinga a una conoscenza sempre perfettibile di se stesso e dell’universo», senza dover «mettere la poesia al servizio di un’azione politica, anche rivoluzionaria» (ibidem, p. 67). Questa rivendicazione imperativa è la stessa che, nel luglio 1938, trovò espressione nel celebre manifesto Per un’arte rivoluzionaria indipendente redatto congiuntamente in Messico da Breton e da Lev Trotsky.

Il fatto che Je ne mange pas de ce pain-là mantenga ancora oggi tutta la sua carica dirompente, che non sia diventato anacronostico, è facilmente comprensibile: esso, infatti, prende di mira i problemi e i mali fondamentali della società borghese (e, più in generale, di tutte le società divise in classi), in cui una minoranza esercita la propria dittatura ‒ apertamente o nascondendosi dietro la maschera della «democrazia» ‒, reggendosi anche grazie alle superstizioni religiose. In questo senso il libro permette di «ritrovare il valore perduto della violenza verbale, che è ad un tempo manifestazione della rivolta e fede nella magia riparatrice del linguaggio» (Claude Courtot). O, per dirla con le parole di un vecchio amico di Péret: «Ogni poeta autentico è, a suo modo, un liberatore, e ogni vera poesia è creatrice di libertà (…). In questo campo, Péret fu uno di quelli che si spinsero più in là» (Jean-Louis Bédouin).

Questa nuova edizione francese di Je ne mange pas de ce pain-là, pubblicata sotto l’egida dell’Association des Amis de Benjamin Péret, è arricchita da un’inchiesta sulla ricezione e sulla valutazione critica dell’opera effettuata nel 1987 da Heribert Becker tra vari «specialisti», tra cui ricordiamo Claude Courtot, Her de Vries, Jean-Michel Goutier, Alain Joubert, José Pierre, Guy Prévan e Arturo Schwarz.

 

 

Il volume può essere richiesto direttamente alla casa editrice attraverso il seguente link:

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